7 Settembre 2008 -

Infrattiamoci

Escursione di manutenzione all’Infrattata

Un titolo più adatto, forse, sarebbe quello di “Cronache di poveri pittori”. Pittori di sentieri, ovviamente; poveri perché da nessuno pagati, dal momento che il CAI, almeno quello salernitano, si trova sempre fuori dai PUC, dai POR, dai progetti europei e simili siglate provvidenze. Pazienza, si sa che noi lavoriamo per la gloria. Poveri, ancora, perchè la fatica stavolta profusa è proprio quella dei più miseri e tartassati lavoratori, con sforamento in orario notturno.

Ciò non sospettavamo al mattino, armati di pennelli, cestelli, barattoli e cesoie, pronti a sfidare l’asperità dei luoghi e la calura di questa fine estate, per giunta partendo dalla quota miserevole di appena 250 m. s.l.m. Siamo in pochi, ancorché l’escursione avrebbe dovuto raccogliere un qualche numero di alunni pronti ad imparare l’arte del pennello.

Due per giunta sono osservatori laici, in quanto denunciano allergia alle vernici.

La qualità è assicurata da Valerio Bozza responsabile della sentieristica, Attilio Piegari accompagnatore di escursionismo e dall’infaticabile Giannattasio

Quest’ultimo ci infila in una sorta di tana di cespugli, al margine della stradina che mena ai Piani di Giffoni, presso una piccola centrale elettrica. Non si risale, infatti, il basso corso dell’Infrattata (affluente del Picentino) ma all’inizio la si segue dall’alto. In alto dunque, lungo un sentiero da capre, roccioso e scorbutico, dove l’uso delle mani, più che ai pennelli, va spesso riservato agli appigli.

Ci compensa, dopo circa 40’ di risalita, la conquista del primo cocuzzolo della Serra Figliorito, costolone perpendicolare all’Accellica, che separa il Picentino dall’Infrattata. Osserviamo un po’ stupiti la grossa condotta forzata che scende dalla piccola cima alla centralina nonché la costruzione sommitale ed una vasca sottostante nella quale, pare, tempo fa sia annegato un pastore.  Siamo a quota 440, il fiume è molto più giù nel fondo del vallone; incamminandoci lungo un tracciato di  servizio lastricato di tavelloni, intravediamo giù un’  altra vasca di raccolta, facente verosimilmente parte del sistema idraulico di captazione; contempliamo soprattutto le pareti orientali verdissime, dei Licinici e della Punta di Tormine che strapiombano sul vallone, di fronte a noi.

Damiano, giovane pastore del luogo, accompagnato da una miriade di cagnolini, ci suggerisce altri nomi: “Pellestrida,  Cap’ ‘e morto, Fricchioni…” Opportunamente richiama, poi, la nostra attenzione su di un monumentale ciliegio inselvatichito che si erge nel cavo di una forra e presso una sorta di grotta trapunta di muschio e calcare. Nome del luogo. “N’terr’ o ceraso”  Peccato che poco dopo Damiano ci lasci, quante cose ancora avremmo voluto apprendere. Presso un ennesima forra scendiamo nel vallone per poi risalirvi; ma il tratto lastricato è finito ed è risalito anche il fiume. Poco dopo lo attraversiamo addirittura piuttosto avventurosamente calandoci su una supposta traccia di sentiero. Siamo sulla riva orografica destra del torrente ed un ampio sentiero ci invita a scendere verso sud, anche perché a lato, poco più in alto c’è “Il Fontanone”. Ma noi dobbiamo invece risalire in direzione opposta per ripidi tornanti in direzione nord-nord est. Le operazioni di pitturazione e sfrascamento rallentano la marcia per cui, quando sono le tredici, nella calura che trafora la pur presente vegetazione, raggiungiamo la quota 600, ci sediamo. Sedersi e pensare a mangiare è tutt’uno. Solo Sandro ci sferza  e prosegue invitandoci a raggiungere almeno il Nocelleto. Qui si consuma lo scisma. La maggioranza, ingollato qualche boccone richiude gli zaini; la minoranza resta e più non raggiungerà gli altri. Il Nocelleto è una sorta di conca suggestiva per la presenza di acqua ed il verde dei noccioli inselvatichiti, ma non priva di segni dei degrado per lo sfaldamento di vecchi muri a secco e per l’intrico delle ramaglie cadute. Il sentiero si perde ma risalendo verso ovest e seguendo un costolone fra due rivoli si guadagna una plausibile traccia. Le rocce dei letti fluviali sudano più che lasciar correre l’acqua in basso. E’ già tanto per il mese di settembre, la giornata caldissima ed il riscaldamento del globo. Sono rocce panciute e violacee che l’acqua stessa ha formato con i suoi depositi. Le osservazioni sono ostacolate dal peso dei cestelli, dall’impennarsi dalla salita, dal maldestro operare di taluno che crea inediti effetti di rosa in luogo delle prescritte e distinte fasce di rosso e di bianco. Stringere il pennello, picchiettare lentamente più che carezzare i tronchi o le rocce…Sembra facile.

Ancora caldo, ancora salita. Invece del refrigerio di un odoroso venticello ci assale presso un piccolo valico il fetore di una vacca morta. Ci allontaniamo di corsa, risalendo un canalone ormai asciutto, dove la via si allarga e sembra spianarsi. Ma prima del varco del Pistone (m.860) ci attende un ultimo strappo. Qui gli inesauribili Valerio e Sandro fanno una rapida (?) deviazione  pittorica verso il varco dell’Arena. Li attendiamo nel sottostante castagneto del Favale, fiduciosi in una sorgente che si rivelerà ridotta a mero stillicidio. Il tempo passa e i nostri eroi non tornano. Un po’ ci distendiamo, un po’ ci spingiamo in una ennesima forra per sbirciare talune marmitte dei giganti nostrane, vasche circolari nella roccia in cui residuano piccoli laghetti

I suddetti eroi non hanno fretta. Quando tornano si attardano a riempire goccia a goccia le loro borracce, accompagnati da una rana rosacea che gioca con le loro bottiglie. Sono ormai le 17 quando riprendiamo la marcia verso la Porta di Monte Diavolo che non è poi tanto vicina. Ancora salita fino a 940 mt. Ma qui la segnatura è già presente, più o meno. Dalla Porta basta calarsi giù nel Vallone del Pagliariello ed è fatta: saremo presto in territorio di Curticelle ove Sandro ha lasciato l’auto. Presto è ancora una volta un eufemismo. Il  dislivello fino ai 400 m. di Curticelle c’è tutto; il sentiero è tutt’altro che agevole: nella prima parte segue il corso stesso del vallone, si affonda nei tappeti di foglie e  si inciampa nei rami caduti; più avanti dovremo talora affrontare esili tracce sospese sul vuoto.

Ma quello che prevale è lo spettacolo  imponente di questo sito geograficamente minore e collocato in un ambito domestico, ma pure così selvaggio e lontano da ogni prossimo contesto. Rocce enormi sul fondo; cascatelle e laghetti ormai esausti in cui sopravvissuti pesciolini invocano una pioggia salvatrice;  fusti alti e verticali nelle pareti che realizzano un intrico di chiome la cui origine non puoi decifrare. L’aria è bruna per i luoghi o per l’ora.? Nemmeno ce lo chiediamo. Vorremmo e non vorremmo uscire da questo  mondo tutto particolare. La razionalità impone, non appena la via si fa più univoca, che Giannattasio spicchi (da par suo) il volo per  recuperare l’auto e venirci incontro appena possibile. Proseguiamo per l’incognita terra orfani della sua guida ma illuminati dalla lampada frontale di Valerio e da un mezza luna assolutamente perfetta. L’accompagnamento musicale è garantito dal concerto dei grilli. Giunti ad una sterrata, i fari dell’auto di Sandro rompono alla fine l’incanto, ma recano al tempo stesso un innegabile sollievo. Ci soccorre altresì un provvidenziale fuoristrada. Ci resta solo da raggiungere le altre auto lasciate in tutt’altra contrada. Quivi giunti tuttavia i poveri e volenterosi  pittori, “con encomiabile zelo”, ancor prima di liberarsi dai cocenti scarponi, avranno cura di dipingere sulla bandierina iniziale, orami asciutta, il numero del sentiero.

Francescopaolo Ferrara