14 Dicembre 2008 - Cronache Picentine
Venerdì scorso abbiamo salutato Marco nella sua Chiesa, quella di San Domenico, nel cuore del centro storico. Ma non poteva bastare. Ed eccoci qui, due giorni dopo, nella domenica di escursione, a risalire il vicino colle di San Liberatore, dove è la palestra di roccia dei suoi primi passi di alpinista.
L’atmosfera è cupa e triste anche dal punto di vista meteorologico.
Ma non per questo ci avviamo un po’ incerti, né per il peso degli abiti inzuppati di pioggia. E’ il peso che ci portiamo dentro a rendere riluttanti i nostri passi.
Optiamo per il sentiero interno che, dopo le ultime case del borgo di Canalone, subito ci immerge nella forra che reca il suggestivo nome di Fossa Lupara. Ci fanno ala lecci fitti e disordinati, ontani spogli, spinosi e magri fusti di acacie e, più su, fusti di castagno altrettanto esili. La loro presenza ci impedisce presto di apprezzare la profondità del vallone alla nostra destra. Chi è nuovo di questo percorso si stupisce del carattere improvviso del salto da una realtà urbana ad un’altra assolutamente selvaggia. Il geologo del gruppo sottolinea quanto sia alto il rischio di frane e smottamenti dei terreni piroclastici sospesi sulle ripide pareti. Il pensiero va naturalmente all’alluvione del 1954, in coerenza con il tono della giornata. Ai tre confini, (Salerno-Vietri-Cava) ovvero al sommo del canalone, ci è anche negato il conforto dell’apertura panoramica. Fitti velari di nebbia ci impediscono la visione del golfo salernitano e della conca di Cava. Ci affrettiamo verso “La Valle”, il piccolo valico sottostante alla sommità del colle per incontrare Filippo, del Gruppo “ALEMA” custode dell’Eremo di San Liberatore, il quale ci introdurrà nel recinto sacro. Lungo la successiva mulattiera timide vacche bianche ci cedono il passo, quasi consapevoli e rispettose del motivo della nostra odierna escursione.
Spicca sul grigio della parete attrezzata per la risalita un cuscino di fiori rossi che una nostra socia spontaneamente è venuta a deporre nel luogo dove Marco le ha insegnato ad arrampicare. Ci fermiamo a ricordare, per proseguire, poi, in assoluto silenzio fino alla Chiesa. Ce la preannunciano una Cappelletta Mariana ed una grande Croce. Dopo quest’ultima, pochi scalini ci fanno scendere in quel sagrato che ha visto tanti pellegrinaggi, tanti incontri festosi, ma anche qualche appuntamento triste, come quello di oggi. I più anziani di noi ricordano la commemorazione di Raffaele Gesuele, socio della Sezione di Cava e precursore di quella salernitana.
Nella foresteria ci disponiamo spontaneamente in cerchio e con altrettanta spontaneità e semplicità parliamo di Marco. Quasi tutti hanno un suo personale ricordo: i ramponi miracolosamente risolutivi di un difficile passaggio sull’Accellica, la piccozza da infiggere nel ghiaccio del Cervati, un arduo canalino del Gran Sasso, o più semplicemente un bagno di mare successivo all’ascensione sull’Avvocata, non dissimile da un precedente e passionale bagno di neve. Non manca uno spunto dialettico sui limiti del rischio della montagna. Ma la montagna è una ragione di vita, anzi è la vita per quelli che come Marco a lei si sono interamente dedicati.
Nella Cappella, sotto l’immagine di Cristo, Re del Mondo e quindi anche della montagna, leviamo come possiamo il canto del “Signore delle Cime” pregando Lui di lasciare andare Marco per le Sue Montagne e Maria di coprirlo col suo soffice mantello.
Usciamo dalla Chiesa sentendoci confusi ed inadeguati, non tanto all’esperimento canoro, quanto rispetto allo scopo ed al significato della giornata.
Ma Marco o Qualcuno per lui e con lui ci rassicurano: sul mare si rispecchia un raggio di sole e l’arcobaleno disegna sulle creste orientali un auspicio di serenità.
Francescopaolo Ferrara